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  • bouhtouchf

-15: “Non c'è uomo senza dispiaceri e se ce n'è uno, non è un uomo.”

Aggiornamento: 10 set 2022




PRIMA PARTE







Ogni volta che guardate il viso di uno straniero con fare diffidente, ricordatevi che dal suo punto di vista lui vede tutti stranieri, eppure non gli concedete il diritto di avere paura.














Casablanca – Fine anni ottanta



-15

“Non c'è uomo senza dispiaceri e se ce n'è uno, non è un uomo.”

(proverbio arabo)




Jawad lanciava i sassolini contro gli scogli lisci su cui Karim poggiava il piede destro, tentando di centrare lo spazio tra le caviglie dell’amico. Il vento pungente si infilava tra i maglioni consumati e scoloriti che indossavano ormai da tre giorni.

-Ahia!- sussultò Karim, portando istintivamente una mano sul lato interno del piede, -Mi hai colpito. Stai attento!- continuò seccato. Jawad rise, consapevole di come Karim fosse capace di rendere ogni cosa più drammatica di quanto non fosse in realtà. Poi si avvicinò allo scoglio anche lui e si sedette all’estremità. Le natiche a contatto con la superficie fredda gli provocarono un brivido che gli corse lungo la schiena e lui si strinse come a voler essere fonte di calore per la propria pelle. L’aria salmastra del mare increspava ancor di più i suoi riccioli neri e gli graffiava le palpebre stanche.

-Secondo te, quanti pesci ci sono nel mare?- chiese Jawad, cogliendo l’altro alla sprovvista. Karim aveva solo sorelle e ritrovava in Jawad la figura del fratello che gli mancava. Gli voleva un bene immenso, ma alle volte pensava che non avesse un cervello del tutto normale, che si ponesse più domande del necessario.

-Che ne so. Come puoi pretendere di sapere qualcosa che solo Dio conosce?- gli rispose con ovvietà.

-A volte vorrei essere un pesce. Un enorme squalo con i denti affilati e nuotare fino alla Spagna!-

-Solo fino alla Spagna? La Spagna è troppo vicina. Io andrei ancora più in là. Cosa c’è dopo la Spagna? La Francia forse, o l’Italia. Anzi, io andrei in America!-

-Ma cosa dici, Karim! Per arrivare in America, non basta essere un pesce. Bisogna saper volare. Bisogna essere un uccello.- lo canzonò Jawad sognante.

-Volare è meglio, hai ragione.- lo assecondò. Rimasero in silenzio per qualche minuto, udendo solo lo stridio dei gabbiani che si contendevano qualche avanzo di cibo secco ed ammuffito, abbandonato da chissà chi, ed il rumore delle onde del mare che si frastagliavano contro la riva umida e fresca.

-Dicono che non manca molto al termine dei lavori per la costruzione della moschea- disse Karim, attratto dalle lontane figure alla loro destra, probabilmente gru e macchinari all’opera. Jawad si voltò verso la direzione che aveva catturato lo sguardo di Karim, tentando di provare la sua stessa curiosità, ma non ci riuscì. Avrebbero anche potuto dirgli che in quell’angolo sarebbe sorto il miglior monumento del mondo, ma lui non si sarebbe lasciato abbindolare. Lo trovava così ingiusto. Tutti quei soldi spesi per costruire una moschea, mentre lui, Karim e tantissimi altri ragazzini del Marocco erano obbligati a rattopparsi pochi vestiti e ad indossare sempre gli stessi capi, nonostante il cambio delle stagioni e la crescita dei loro corpi costretti dall’età. Una strana sensazione gli infuocó il petto e, arrabbiandosi, calciò forte un sasso che aveva di fronte e poi sputò, come se cercasse di liberarsi di quel miscuglio di irritazione e rancore che gli ribolliva dentro. Non voleva odiare la terra in cui era nato, ma pareva che tutto mirasse ad alimentare il suo desiderio di evadere, di scappare lontano. Buttò un’occhiata alla distesa d’acqua grigia e salata che gli riempiva le pupille. Non riusciva a definire la linea d’orizzonte, a capire dove cominciasse il cielo. Chissà se la Spagna era davvero vicina come affermava Karim.

-Comincia a fare freddo qua. Andiamo? Ho fame.- gli disse Karim, saltellando tra gli scogli per raggiungere Jawad che si era chiuso in un silenzio disordinato.

-Sì, andiamo. Possiamo andare a mangiare da Lalla Aicha, fa le migliori lenticchie che io abbia mai mangiato.- propose Jawad. A Karim si illuminò il candido volto ovale all’idea di un piatto caldo con cui coccolare il ventre e la mente. Annuì con vigore e si infilò le mani nelle tasche della felpa che un tempo doveva essere stata rossa come i chicchi di melograno più maturi, ma che ora rasentava un rosa pallido e scialbo, testimone di infiniti lavaggi grezzi.

Trascinarono le loro espadrillas di plastica lungo la spiaggia, dirigendosi verso la strada che costeggiava il lungomare. Si fermarono per due secondi e poi attraversarono evitando le macchine con maestria. Pareva che ci fosse un tacito accordo tra autisti e pedoni. Nessuno dei due si fermava, ma tutti tenevano conto l’un dell’altro, creando così un codice stradale in cui vigeva la regola dell’assenza di regole.

Dovettero camminare per qualche chilometro, prima di raggiungere il cuore della città. Era già calato il buio ad annunciare le precoci sere dell’inverno. I taxi rossi sfrecciavano tra le vie come impazziti, carichi di uomini e donne impazienti di arrivare a casa. I marciapiedi accoglievano studenti stanchi, ma ancora vogliosi di collezionare novità e fette di vita. I grembiuli bianchi ed azzurri sciamavano sregolati, tessendo trecce di cuori immaturi ed inesperti, reduci da ore trascorse chini su libri noiosi, ma fondamentali. Sul palmo di qualche mano, ballavano semi di girasole che i denti provvedevano a sbucciare avidamente, mentre tra una chiacchiera e l’altra, si perdeva la leggerezza delle risate innocenti.

Jawad adorava Casablanca in quel momento della giornata, gli sembrava che fosse più gentile con tutti, anche con lui. Karim notò sua sorella sul ciglio della strada opposta e la chiamò:

-Saadya, Saadya!- la ragazza si voltò confusa, per scovare il punto da cui arrivava il richiamo. Dopo aver agitato il capo a destra ed a sinistra, si soffemò su Karim e gli andò incontro.

-Dì alla mamma che mangio da Lalla Aicha- le comunicò.

-Va bene, ma non fare tardi.- Lei si protese e gli stampò un bacio sulla guancia e poi gli scompigliò i capelli. Jawad osservò Saadya dar loro di spalle e tornare a perdersi tra quell’ammasso di zainetti e gambe. Nella famiglia di Karim erano tutti particolarmente belli e Jawad non fece altro che confermarlo alla vista della sorella dell’amico. Poi si imbarazzò al pensiero e gli si rivolse con tono incomprensibilmente scocciato:

-Ci muoviamo? Ho fame.- Karim non fece caso alle maniere di Jawad e lo superò, infilandosi nella seconda via a sinistra, verso il piccolo chiosco di Aicha.


L’acqua che fuoriusciva dal lavandino era gelata, ma Aicha si era ormai abituata. La pelle delle mani si era fatta più dura e resistente, anche se ogni tanto le bruciava. Quando le succedeva, scaldava un po’ di olio di oliva, ci aggiungeva del timo e se lo spalmava sulle mani, fasciandole con un vecchio foulard di cotone che non usava più. Dormiva tutta la notte con le mani bendate, nella speranza che alleviasse il bruciore. Ghani, suo marito, inizialmente se n’era lamentato, sostenendo che l’odore di olio e di timo lo disturbasse, ma ricevendo in risposta l'espressione corrucciata della moglie, aveva rimediato dicendole: “Ma così non potrò baciarti le mani a letto”. Aicha aveva sorriso, ricordandosi il motivo per cui aveva sposato quell’uomo a distanza di poche ore dalla sua conoscenza. Non se n’era innamorata e non credeva che lui si fosse innamorato di lei, ma riusciva sempre a trovare una risposta spiritosa che la cogliesse impreparata e la coinvolgesse. Era molto più grande d’età, vedovo e con già due figli a cui serviva una figura materna. Scelse lei perché, in primo luogo, tutti nel quartiere lodavano la sua bravura nella gestione delle attività domestiche e poi perché nonostante non potesse di certo definirsi una bella donna, c’era qualcosa nei suoi occhi che incantava chiunque ci inciampasse con lo sguardo. Fu per queste ed altre sottili ragioni che i due si sposarono senza troppe cerimonie, firmando l’atto di matrimonio lo stesso pomeriggio in cui lui si presentò a casa della famiglia di Aicha, curioso di riscoprire la dolcezza di una moglie e spinto dall’esigenza di recuperare un grembo che potesse accogliere i capricci dei figli.

Chiuse il rubinetto solo dopo aver lavato accuratamente la menta che infilò nel berrad, la teiera tradizionale, assieme a zucchero e tè, mescolando lentamente. Versò un sorso in un bicchiere di vetro stretto, assaggiò e convenne che era ottimo. Come sempre. La sua attenzione fu catalizzata da due voci che si accingevano a raggiungere il bancone, dietro al quale lei comparve immediatamente.

-Salam alaikom, Lalla Aicha.- le disse Jawad.

Aicha notò che il ragazzino doveva avere molto freddo, considerato l’incurvamento delle spalle ed il leggero tremolio dei denti.

-Alaikom salam, entrate, vi faccio sedere dentro.- così dicendo, aprì la porta di legno ruvido e muschioso che separava l’interno del chiosco dall’esterno. I due non se lo fecero ripetere due volte e piombarono oltre la soglia non appena la donna spostò l’asse che copriva l’uscio. Poi versò due bicchieri di tè e glieli porse.

-Avete fame?-

-Sì. Vorremmo le lenticchie, per favore.- le rispose velocemente Karim.

-Certo. Com’è andata a scuola oggi?- chiese mentre accendeva il gas e metteva sul fuoco una grande pentola corrosa dal troppo utilizzo.

-Non ci siamo andati- disse sempre Karim, -non avevamo voglia.-

Aicha si rabbuiò.

-Non potete saltare la scuola così! Dovete studiare, è l’unico modo per farcela.-

Jawad sogghignò, col sapore del sarcasmo e l’amarezza della verità sulla lingua.

-L’unico modo per farcela è andarsene.-

Quel ragazzo riusciva sempre a trasmetterle un senso di inquietudine o di malinconia, non sapeva ben dirlo, ma le dava l’impressione di essere un uomo maturo e disilluso nel corpo di un tredicenne. Gli accarezzò la guancia fredda ed appoggiò il dito sulla lunga cicatrice che gli squarciava la guancia sinistra, come se non fossero bastate le orecchie troppo grandi ed i denti storti a rendergli il viso sgraziato. Eppure il naso perfettamente a punta e le pupille scure e profonde parevano gridare a squarciagola che la bellezza era pari a tutte le altre virtù, c’era chi ne aveva tanta dispersa ovunque e chi poca, ma concentrata in così poco spazio al punto da confondere.

Aicha preparò un piatto abbondante di lenticchie calde, condite e cotte come solo lei e le donne della sua famiglia sapevano fare. Scaldò il pane e riempì di nuovo i bicchieri di tè. Li guardò divorare la loro razione, senza perdersi in chiacchiere. Le fecero tenerezza e oservandoli, si chiese se Dio avrebbe donato dei figli anche a lei. Era sposata con Ghani già da un anno e mezzo, ma ancora non riusciva a rimanere incinta. Però non si preoccupò. Sua madre le disse che era una cosa di famiglia e che lei, prima di concepirla, dovette aspettare quasi quattro anni, dopo svariate gravidanze terminate male.

-Potresti servire un piatto anche a me?- la voce grossa e rauca di un uomo squarciò il silenzio in cui rimbombava solo il rumore del masticare dei due ragazzi. Affacciato al chiosco c’era Ghani. Jawad lo degnò solo di un’occhiata fugace, Karim invece lo salutò, considerato che il padre lo conosceva da tempo. Aicha sorrise e si alzò decisa. Servì un altro ottimo piatto di lenticchie al marito che mangiò di buon grado, complimentandosi con lei in maniera sfarzosa. Non seppe perché, ma a Jawad irritarono i modi di fare di quell’uomo.

-Posso lavarmi le mani?- chiese Karim. Aicha gli diede il permesso e la intenerì quel giovane così alto e dolce, obbligato in vestiti vecchi e consumati, che si preoccupava dell’igiene e che in più occasioni le aveva dimostrato di essere stranamente ordinato e minuzioso. Jawad si leccò le dita ed imitò l’amico, ma con meno entusiasmo ed attenzione. Poi finì l’ultimo sorso di tè ed uscì dall’interno del chiosco, schivando per poco la coda di un gatto randagio sporco, dal miagolio simile ad un continuo lamento fastidioso.

-Fa freddo oggi- gli disse Ghani. Jawad alzò le spalle, lasciando intendere la sua scarsa voglia di fare conversazione. Poi si infilò una mano nella tasca e rovistò alla ricerca degli spiccioli. Si avvicinò al bancone e appoggiò le monete sulla superficie liscia ed unta. Erano i suoi ultimi risparmi, ma pensò che le lenticchie saporite di Aicha valessero sicuramente la pena. Poco dopo ricomparve Karim che salutò con entusiasmo la coppia. Jawad si allontanò a passo spedito, disturbato da quell’uomo e convinto di avere ancora i suoi occhi puntati sulla schiena. Rabbrividì e non seppe dirsi se fosse per il freddo o per l’inspiegabile disagio che provava.

-E’ da tanto che conosci il marito di Aicha?- chiese a Karim che dopo aver mangiato pareva ancora più allegro di prima.

-Sì. Prima era sposato con un’altra donna, una lontana parente di mamma, ma tre anni fa si è ammalata ed è morta. Dicono sia stato per il cancro, che Dio abbia misericordia di lei.-

-Amin- disse Jawad.

-Comunque avevi ragione. Le lenticchie di Aicha sono proprio buone. Io quando vado da lei mangio altre cose, ma queste erano buonissime.-

A Jawad confortò l’idea di aver migliorato la giornata di Karim, seppur con poco.

-Io ora vado a casa. Ho promesso a Saadya di non fare tardi- gli ricordò Karim.

-Certo. Ci vediamo domani.-

Si strinsero le mani e si diedero una pacca sulla spalla. Karim ritornò sullo stradone principale, diretto a casa ed a malincuore anche Jawad dovette arrendersi al freddo ed alla stanchezza ed imboccò la via a sud per raggiungere il quartiere più povero di Casablanca.


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