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  • bouhtouchf

-14: ”Lancia il tuo cuore davanti a te e corri a raggiungerlo.”

Marrakech - Fine anni ottanta




-14

(Proverbio arabo)




I capelli di Naima avevano lo stesso colore del carbone brillante e, mentre gli parlava, una ciocca folta e liscia le cadde sulla fronte, scivolando fuori dal foulard di seta azzurro che le aveva regalato lui stesso qualche mese prima. Aveva l'abitudine di muovere le mani ogni volta che riteneva di dover sottolineare un concetto importante e questo le garantiva l'attenzione costante dell'interlocutore, anche se in quel momento serviva a ben poco, perché Ibrahim non riusciva proprio ad ascoltarla. Si domandava, infatti, come le avrebbe riferito che quello sarebbe stato uno dei loro ultimi appuntamenti e gli doleva la coscienza al sol pensiero. Lei continuava a raccontare di un aneddoto a cui aveva assistito nel souk centrale, in compagnia delle sorelle, e che doveva essere stato parecchio divertente a giudicare dalla leggerezza con cui ne parlava, sorridendo ad intermittenza. Lui si armò di tutto il coraggio che aveva in corpo e, tutto d’un fiato, le disse:

-Vado in Italia. Per sempre.-

Poi tacque, in attesa di catturare lo stupore e lo sconcerto nello sguardo della donna che amava, inconsapevole del fatto che non sarebbe mai più riuscito a scordare quell'immagine. Per un minuto, tutto si fermò. Non sentirono nessuno ridere o piangere, non udirono il fruscio delle foglie, non passò neppure una macchina ed anche gli uccellini parevano aver smesso di cinguettare. Naima si appoggiò una mano sulla bocca, per respingere un verso scomodo, toccando con l'indice il piccolo neo al lato destro delle labbra, che rendeva il suo viso ancor più degno d'apprezzamento. Con un fil di voce, gli chiese:

-Quando?-

-Tra una settimana-.

Le rispose in maniera meccanica, come se non lo stesse dicendo a lei, ma a se stesso, concretizzando finalmente un'ipotesi rimasta astratta fino ad allora. Avrebbe tanto voluto abbracciarla, chiederle scusa per non averla resa partecipe delle sue decisioni, rassicurarla, farle dieci promesse e poi giurare di salvare il loro amore, ma non fece niente, perché in cuor suo sapeva che mantenere la parola, a volte, costava caro e che era meglio scandire il dolore in silenzio, senza regalare semi di speranza a chi aveva fortemente bisogno di aggrapparsi a false illusioni. Naima si alzò, impotente e ferita, aggiustò velocemente la ciocca di capelli sfuggita dal velo poco prima e, chinando la testa, si diresse verso casa. Camminava divorando la polvere del suolo e non badava a persona alcuna, troppo impegnata a gestire il subbuglio che le nasceva dentro. Ibrahim la fissò finché non scomparve tra le vie piene e strette del quartiere, poi sospirò affranto. Non aveva tenuto conto di quanto male gli avrebbe fatto la separazione. Rimase seduto per un paio di ore a fare i conti col disagio che causavano le grandi scelte. Il sole splendeva potente su quella fetta d'Africa e riscaldava le ambizioni dei quattro bambini che gli sedevano di fronte, intenti a decidere a chi di loro spettasse il ruolo di capitano, mentre un quinto bambino cercava di trasformare una mezza bottiglia in qualcosa di lontanamente simile ad un pallone. Li ringraziò inconsciamente, per averlo sottratto all'agonia di quell'istante, e pregò che nessuno di loro dovesse mai patire lo struggimento di un amore perduto, di qualsiasi natura esso fosse. Nel tentativo di sfuggire a se stesso, si concentrò su quella puerile partita e si ritrovò addirittura a tifare per una fazione, ricordandosi della necessità di ogni essere umano di prendere posizione e della sua impossibilità di rimanere totalmente neutro di fronte alla vita. Vide il bimbo più basso di tutti esultare, per aver segnato un gol tanto sudato, e quasi gli invidiò l'ingenua allegria, tipica dell'età. C'erano certi momenti in cui si sentiva più vecchio di quanto non fosse, coinvolto in ragionamenti più adulti di lui, con la mente ingombrata da preoccupazioni che a ventitré anni uno non dovrebbe temere. Era questo il dramma dell'Africa: bella da morire ed eternamente giovane, ma con la capacità di anticipare i tempi dei corpi di chi la popolava. Così i fanciulli dalle guance ancora sbarbate si ritrovavano a dover crescere dieci volte più velocemente della norma, per poter liberare i loro sogni dal cassetto. Il punto era che ci riuscivano raramente e allora finivano per bloccarsi in una specie di limbo esistenziale, in cui metà animo invecchiava e metà animo si faceva cullare da un'infanzia mai cominciata e mai giunta a termine per davvero.

La fine della partita lo richiamò alla realtà. Era quasi ora di cena e ci teneva a mangiare con sua madre. Si alzò lentamente e si incamminò lungo la stradina principale, svoltando a destra e poi a sinistra, attento a schivare le pozze di acqua e fango. Vide Aziz, il barbiere di fiducia, di fronte al proprio negozio e, proprio accanto, scorse la porta di casa sua. Avrebbe potuto raggiungere quel posto ad occhi chiusi. Era cresciuto tra le mura color terracotta che ora gli riempivano gli occhi, giocando a biglie coi vicini e rubando caramelle alle bambine schizzinose. Proprio a pochi passi da lì, aveva imparato a palleggiare e ad andare in bicicletta, a saltare la corda ed a scovare gli scorpioni. Anche Naima l'aveva conosciuta al forno principale della zona, anni prima, e non si era più potuto dimenticare di lei, colpito dalla dolcezza con cui riempiva di latte una ciotola di plastica, per allungarla ad una gatta evidentemente incinta. Per questa ragione, tornò a comprare il pane ogni giorno, alla stessa ora, deliziandosi dei gesti della ragazza che non si era mai accorta di nulla. Una mattina, Naima si presentò dal fornaio ordinando del pane fresco e Ibrahim si offrì di pagarglielo, catturando finalmente la sua attenzione. Le labbra della ragazza si incurvarono in un bel sorriso, permettendogli di notare il piccolo neo e di collezionare i particolari di un viso di cui non riusciva a stancarsi.

Ibrahim bussò alla porta con delicatezza, percependo i passi di sua madre farsi sempre più vicini.

-Chi è?- chiese con prudenza.

-Sono io.- le rispose.

Non ci fu bisogno di aggiungere altro, una madre riconosceva sempre la voce del proprio figlio. Si udì il rumore del chiavistello, seguito da un piccolo stridio. Uno spiraglio di luce illuminò la soglia marmorea e liscia. Le baciò la fronte intensamente, coccolandosi le narici con il profumo di henné che impregnava i capelli della donna. Lei gli mandò una preghiera di buon auspicio e lui sussurrò "amen" con tutta l'empatia che gli scorreva nelle vene, bisognoso di riporre fiducia nel destino.

-A che ora partirai?- gli chiese sua madre, mentre apparecchiava il vecchio tavolo di legno con gli angoli rotti. Si promise di comprarne uno nuovo il prima possibile.

-Uscirò di casa verso le cinque e mezza, perché l’aereo partirà alle sei e quarantacinque.-

Si versò un bicchiere d'acqua e poi intinse il pane nel tajin, spinto da un improvviso appetito.

-Tu non mangi, mamma?-

-Ho mangiato poco fa con tua sorella Zakiya. È passata a salutarci, ma tu eri fuori. Mi ha chiesto di dirti di andare a trovarla prima di partire.-

-Lei come sta? Si è ripresa?-

-Al-hamdu-li-Lah, se la cava. È forte.-

Zakiya era sua sorella più grande. Aveva perso un bambino qualche mese prima e questo l'aveva emotivamente segnata. Suo marito Jalal non era riuscito a convincerla del fatto che non fosse colpa sua. Dopo settimane di depressione, era riuscita a venirne fuori, riprendendosi lentamente. Abitava dall'altra parte della città ed ogni giovedì veniva a far visita alla famiglia, per accertarsi che non mancasse loro nulla di essenziale, anche se le spese del medico e dell'ospedale non le permettevano di essere molto utile. Inoltre Zakiya aveva due figli da mantenere ed il lavoro del marito a malapena garantiva loro i pasti giornalieri.

-Andrò a trovarla domani, mi mancano i bambini. Hai preso le medicine oggi?-

-Sì, ormai è un appuntamento fisso.-

La donna gli sorrise premurosa e lui si chiese se sarebbe mai riuscito a ripagarla di tutto quell'affetto. Terminò la cena con calma, attento a gustarsi ogni boccone. Col pensiero, lodò le doti culinarie di sua madre e la osservò con ammirazione. Le mani gentili della donna raccoglievano ogni stoviglia con abilità, per poi riporle in cucina. Pulì il tavolo e spazzò via dal tappeto ogni briciola, si sedette affianco al figlio e gli accarezzò il braccio. Lui la abbracciò forte, meravigliandosi della fragilità del corpo di chi l'aveva messo al mondo. Qualche istante dopo, il mu'ezzin ruppe il silenzio, richiamando l’attenzione di ogni fedele. I due sciolsero l'abbraccio e lei lo lasciò solo nel piccolo salotto, per ritirarsi a pregare. In quel momento, più che mai, ne sentiva incredibilmente la necessità.




Naima non riuscì a dormire quella notte. Continuava a chiedersi perché Ibrahim l’avesse esclusa da una decisione così importante. Quando tornò a casa, tra un singhiozzo e l’altro, raccontò l’accaduto alla sorella, che si arrabbiò molto e che le consigliò di voltare pagina, ma lei non ci riuscì. Si sentiva tradita e non si spiegava il gesto dell’unico uomo che, dopo suo padre, le avesse ispirato tanta fiducia e rispetto. Cominciò a riflettere su cosa ne sarebbe stato dei loro progetti e del loro futuro insieme, se sarebbe tornato a prenderla o se l’avrebbe scordata una volta arrivato in Italia. L’avrebbe di certo aspettato, ne era più che sicura, ma temeva che lui si innamorasse di qualche bella donna italiana, troppo preso dalla sua nuova vita per mantenere saldo il legame con lei. Si rigirava tra le coperte, in preda ad una strana sensazione di ansia che le aveva impedito anche di cenare. La tristezza aveva soffocato la fame e lo stomaco si era chiuso, incapace di trovare consolazione nel cibo. Si alzò e si avvicinò alla finestra. Osservò due pali ai lati della strada, intenti ad imitare la luna, unica signora della notte, e si chiese che cos’avesse in serbo per lei Dio. Fino a quel pomeriggio, danzava su un palco di umili certezze a cui non avrebbe rinunciato per nulla al mondo. Si era convinta di poter sposare il ragazzo di cui era innamorata, che avrebbero avuto dei figli a cui avrebbe voluto più bene che a stessa, e che avrebbero condotto una vita semplice, ma felice. Ora tutto questo le sembrava lontano anni luce ed il leggero strato di sicurezze su cui poggiava la sua esistenza pareva sgretolarsi in fretta, costringendola ad un duro confronto con la realtà, divenuta improvvisamente amara. Guardò il vecchio orologio, appoggiato su una delle mensole scure incastrate nella parete. Mancavano poche ore all’alba. Si avvicinò al suo piccolo materasso e decise di abbandonarsi alla stanchezza, speranzosa di trovare un rifugio emotivo almeno nel sonno. Il frignìo di un grillo accompagnò il ritmo della sua respirazione, che si fece sempre più lento, fino a sprofondare in una regolare serie di sospiri intensi. Le palpebre di Naima si chiusero con dolcezza, sotto alla luce di una meravigliosa luna, intenta a scrutare ogni angolo dell’addormentata Marrakech.




Il venerdì mattina era sempre una festa. Si poteva percepire la gioia delle persone nell’aria. Tutte le donne si alzavano presto per dirigersi al souk di fiducia e comprare della verdura fresca, necessaria per cucinare un buon cuscus. Gli uomini, invece, erano soliti tagliarsi i capelli dal barbiere, farsi una doccia calda e raggiungere gli amici alla moschea più vicina, per celebrare la preghiera della Joumu’a. I bambini non vedevano l’ora che finissero le lezioni a scuola, per catapultarsi a casa e riempirsi la pancia di tutte le delizie che mamme e sorelle avevano preparato. Era un giorno importante anche per Aziz, che aumentava esponenzialmente le sue entrate, siccome provvedeva a perfezionare la barba di amici e parenti e ad acconciare i nipoti dei vicini.

-Hai un po’ di tempo per me? Non riesco a venire dopo la preghiera, perché devo andare a trovare mia sorella Zakiya. Se riesci a ritagliarmi qualche minuto, te ne sarei grato.-

Aziz alzò lo sguardo dal cliente a cui si stava dedicando e sorrise, mostrando due incisivi rotti ed una dentatura poco curata.

-Ragazzo mio, ogni settimana hai una scusa buona per farti servire prima degli altri! Stavolta ti perdono solo perché potrebbe essere l’ultimo venerdì in cui posso avere l’onore di sistemarti quel testone.- gli rispose divertito.

-Grazie mille, Aziz. Sei un vero amico.-

-Perché? Dove vai?- gli chiese il cliente. Dalla voce, Ibrahim riconobbe Mohamed, il fornaio.

-Vado in Italia.- rispose. Mohamed si voltò:

-E non mi dici nulla? Devo venirlo a sapere dal buon vecchio Aziz?-

-Scusami, ma sono un po’ impegnato e distratto ultimamente! Te l’avrei sicuramente detto.-

-Ammettilo che pensavi di partire senza salutarmi!- ironizzò.

-E come potrei?- lo rassicurò il ragazzo.

-Beato te, Ibrahim. Te ne vai in Europa, lontano da qui. Non sai quanto pagherei per essere al tuo posto.-

-Comincerò una nuova vita e spero di poterne far cominciare una nuova anche alla mia famiglia.-

-Non ti scordare di me, mi raccomando!- lo punzecchiò Aziz, mentre si strofinava le mani su un asciugamano consumato da un’esagerata quantità di lavaggi.

-Non posso scordarmi di voi! Pregate per me.-

-Abbi fede, Ibrahim. Sei un bravo ragazzo, ce la farai.- lo rassicurò Mohamed che si era alzato dalla sedia e si contemplava allo specchio.

-Hassna adorerà questo taglio. Dio benedica le tue mani d’oro, Aziz!-

Hassna era la moglie di Mohamed e riusciva sempre a trovare qualcosa da ridire sulla maniera in cui il marito sceglieva di tagliarsi i capelli. Aziz e Ibrahim incrociarono gli sguardi complici. Non invidiarono l’amico, ma sotto ai baffi gli concessero di credere alle proprie parole.

-Forza, tocca a te, Ibrahim.-

Aziz osservò la folta chioma scura del ragazzo e decise di dare il meglio di sé, come prova d’affetto. Gli si stringeva il cuore all’idea dell’allontanamento di Ibrahim. Lo aveva visto crescere, diventare così simile all’ormai defunto padre nel quale lui, anni prima, aveva trovato un fedele amico. Mentre puliva le affilate forbici, si promise di non interrompere mai i contatti con lui, giusto per mettersi l’anima in pace.

Ibrahim si abbandonò alle esperte mani di Aziz, mentre il ritornello di una canzone dei Nass-Al-Ghiwane gli accarezzava i timpani, risvegliando le sue più acute malinconie: “Nulla mi devasta più della separazione dagli affetti…”.














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